Il no della Cassazione alla cannabis light

Di   12 Giugno 2019

La suprema corte ha disposto il divieto di vendita al pubblico dell’inflorescenza, ma secondo Federcanapa e Consorzio nazionale tutela canapa, anch’essa sarebbe di lecita cessione perché non esiste letteratura scientifica che ne attesti una qualche “efficacia drogante”. Al sicuro i rapporti commerciali tra agricoltori e industria di trasformazione

Agricultural field of industrial hemp

Fino agli anni 50 la canapa è stata una delle colture di punta in alcune zone d’Italia, tanto che il nostro paese, con 90 mila ettari del proprio territorio, era tra i primi produttori al mondo. La pianta veniva coltivata nel trevigiano, in Campania, nel torinese e alle porte di Milano. Era un caposaldo soprattutto dell’economia bolognese, ferrarese e modenese, spcialmente lungo il Delta del Po e veniva utilizzata per la produzione di carta e tessuti, cordame, oli e combustibile, ed era importante anche nel settore della cosmetica e dell’edilizia.

Oggi la stretta sugli shop e la poca chiarezza nell’applicazione della legge sulla coltivazione della canapa può compromettere una produzione dalle potenzialità ancora interessanti come alternativa da reddito alle produzioni cerealicole.

Ma cosa è successo? Lo scorso 30 maggio le sezioni unite penali della Corte di Cassazione, presiedute dal presidente aggiunto Domenico Carcano, hanno deciso che è reato commercializzare i prodotti derivati dalla cannabis light perché “Integrano il reato le condotte di cessione, di vendita, e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della Cannabis sativa, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante“.

I supremi giudici spiegano che la commercializzazione di Cannabis sativae in particolare di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicazione della legge 242 del 2016“, sulla promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa. Secondo la sentenza, invece la legge 242/2016 “qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole” che “elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati“.

La Corte di Cassazione detta così un criterio (l’efficacia drogante) per stabilire quali siano in linea di massima le condotte lecite e illecite rispetto alla commercializzazione dei prodotti. Inoltre, fa una distinzione tra vendita al pubblico della canapa (illecita) e vendita della canapa dagli agricoltori a soggetti trasformatori, lecita perché contemplata dalla legge 242/2018.

L’efficacia drogante

Federcanapa invita tutti gli attori della filiera a tenere presente che con questa sentenza c’è almeno una certezza: il reato previsto dall’articolo 73 del Dpr 309/1990 non scatta se manca l’efficacia drogante del prodotto, che letteratura scientifica e forense attestano al raggiungimento o superamento della soglia dello 0,5% di Thc, il cannabinoide con potenziali effetti stupefacenti. Al di sotto di tale limite non è rilevabile effetto psicoattivo, come per altro conferma la stessa circolare del ministero dell’Interno del luglio 2018, che richiama questo limite: “Quantitativi pari ai 5 mg di Thc per singola dose/assunzione consentirebbero di attribuire – in linea teorica – la natura di sostanza stupefacente alle infiorescenze in esame” è scritto nella circolare. Su tale linea si attesta anche una nota del Consorzio nazionale tutela canapa.

Federcanapa inoltre avverte: “In ogni caso tutte le attività agricole e le attività di vendita da aziende agricole e ad altre imprese per la trasformazione della canapa in prodotti derivati – cosmetici, alimentari, manifatturieri, biomassa, colture per florovivaismo – ricadono sotto la L.242/2016 e pertanto non sono minimamente a rischio, purché conformi alle rispettive normative di settore”. Anche in questo caso Consorzio nazionale tutela canapa ha una posizione allineata.

Il rischio – secondo Federcanapa e Consorzio nazionale tutela canapa- resta per la vendita al pubblico di cannabis light o di derivati dalle infiorescenze. Dal momento che la sentenza della Cassazione esclude infiorescenze, foglie e resine dall’ambito di applicazione della legge sulla canapa industriale (L.242/2016), anche sotto lo 0,5% di Thc.

Malgrado ciò, Federcanapa ritiene “giusto vendere al pubblico derivati dalle infiorescenze di canapa industriale, purché derivino da varietà europee certificate e rispettino la salute dei consumatori sia sotto il profilo del Thc che su quello di altre sostanze nocive quali muffe, metalli pesanti, micotossine o altro“.

A tal proposito Federcanapa, insieme a Cia e Confagricoltura, ha adottato un marchio e un “Disciplinare di produzione delle infiorescenze” volto a certificare e tracciare l’intera filiera produttiva e a garantire la qualità e la sicurezza dei prodotti (con Thc inferiore allo 0,2%). E secondo Federcanapa per tale tipologia di produzione, “la relativa commercializzazione non possa costituire reato, come confermato dalle sezioni unite della suprema Corte di Cassazione”. Qui Federcanapa fa riferimento al principio generale della mancanza dell’efficacia drogante dei prodotti, che si perde da 0,5% di Thc in su.

Consorzio nazionale tutela canapa: i prodotti a nostro marchio sono sicuri
Tutti i prodotti a nostro marchio sono completamente legittimi, corredati di dossier tracciabilità e analisi; invitiamo tutti a diffidare dai prodotti di dubbia provenienza” conclude la nota di Consorzio nazionale tutela canapa, lasciando capire che trattasi di prodotti con Thc inferiore a 0,5%.

Ma resta il dubbio sul fatto che comunque possa scattare la tagliola sulle parti di pianta.