Consumo di suolo, che fine ha fatto la legge in Parlamento?

Di   19 Agosto 2020

Lo stallo di un provvedimento atteso da oltre sei anni ma poco gradito agli amministratori che perderebbero un facile modo per fare cassa con l’urbanizzazione

Fissiamocelo bene in testa, il suolo è considerato dai nostri sindaci come un vero e proprio “bancomat” per ricavare risorse dagli oneri di urbanizzazione. Nulla di sorprendente, quindi, se la legge sul consumo di suolo si aggiri in Parlamento da oltre sei anni, nonostante i tanti allarmi, e nonostante i cosiddetti “ambientalisti” da dieci anni siedano sulle poltrone che contano.

L’ultimo allarme è quello di Ispra (il Rapporto 2020 è uscito lo scorso luglio): “in meno di vent’anni la superficie edificata ha corroso oltre 2 milioni di ettari coltivati, cancellando il 16% delle campagne, in media ogni giorno si coprono 14 ettari di terreno”.

Ogni tanto la legge, ferma al senato, viene riesumata. Troppo poco però, specie se si guarda alla volontà (almeno espressa) delle diverse forze politiche, delle associazioni, e degli operatori. Tutti concordi nel dire che la legge non solo è necessaria ma è urgente.

In questa legislatura (anche se il provvedimento ha una lunga storia che ne taglia trasversalmente almeno altre due) i testi in origine erano due: il ddl 86 (“Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo nonché delega al Governo in materia di rigenerazione delle aree urbane degradate”), presentato dalla senatrice Loredana De Petris (Leu); il ddl 164 (“Disposizioni per l’arresto del consumo di suolo, di riuso del suolo edificato e per la tutela del paesaggio”), presentato dalla senatrice Paola Nugnes (M5s).

Il suolo viene definito del ddl a firma Leu “bene comune e risorsa non rinnovabile che esplica funzioni e produce servizi ecosistemici, anche in funzione della prevenzione e della mitigazione degli eventi di dissesto idrogeologico, delle strategie di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici, della riduzione dei fenomeni che causano erosione, perdita di materia organica e di biodiversità”. Il disegno di legge dei 5 Stelle attribuisce invece al suolo un “ruolo fondamentale per la sopravvivenza degli esseri viventi”, evidenziando l’indifferibilità delle azioni volte a preservarlo da ulteriori possibili trasformazioni, dai fenomeni di erosione e dalle cementificazioni.

Ma se ne sono aggiunti altri di Forza Italia, Pd e Lega. Mentre diverse associazioni (Coldiretti, Fai-Fondo ambiente italiano, Inu-Istituto di urbanistica, Legambiente, Lipu, Slow food, Touring club e Wwf) hanno depositato in commissione ambiente un documento condiviso dove sottolineano la necessità “di una norma quadro, leggera, senza eccessiva sovrapposizione di argomenti e finalità, che possa fungere da architrave per la tutela del nostro territorio”.

Alcune Regioni, almeno loro, si muovono, ma in ordine sparso. Si tratta di Abruzzo, Calabria, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Toscana, Umbria, Veneto e soprattutto Lombardia (la prima a muoversi in tal senso). Ma le disposizioni regionali sono sotto esame della Corte Costituzionale perché limiterebbero la potestà urbanistica dei Comuni.

Siamo quindi da capo: il suolo è considerato dai nostri sindaci come un vero e proprio “bancomat” per ricavare risorse dagli oneri di urbanizzazione. E il Governo sembra pensarla allo stesso modo, al di là dei bei proclami. Ed espressioni come “rigenerazione urbana”, “contenimento del consumo di suolo”, “riqualificazione delle aree”, “bonifica e reindustrializzazione sostenibile dei territori” sono la cipria per sindaci e ministri che vogliono coprire qualche ruga e qualche pianificazione e programmazione urbanistica con la vaga intenzione di varare una legge organica di riforma.

Eppure tutela dl territorio e del suolo, soprattutto attraverso l’utilizzo di nuovo materiale e tecnologie costituirebbero un affare. Secondo Confindustria, a fronte di un investimento di 10 miliardi di euro per il risanamento delle aree pubbliche e private, per una superficie complessiva da bonificare di 46mila ettari, si potrebbe avere un aumento del livello di produzione di oltre 20 miliardi di euro e un aumento del valore aggiunto complessivo di circa 10 miliardi di euro, nel giro di cinque anni, con 400mila nuovi posti di lavoro. Ma si tratta di soldi e posti di lavoro non facili, che richiedono competenze e progetti complessi. Molto meglio andare a fare bancomat.