Dove va l’olivicoltura italiana?

Di   21 Agosto 2019

Angela Canale: “Servono nuove e coraggiose riflessioni, per dare un moderno giusto ruolo all’olivicoltura e agli operatori del settore”

Angela Canale

Dopo una stagione 2018/19 disastrosa sotto il profilo quantitativo con prezzi all’ingrosso dell’extravergine d’oliva 100% italiano prossimi ai 5 euro/kg e quote di mercato in calo (tanto che il 40% risulta invenduto), è il caso di chiedersi che strada dovrebbe percorrere l’olivicoltura del nostro Paese. “La situazione non è cambiata rispetto agli ultimi anni”. Angela Canale, da 30 anni nel settore olivicolo, è agronomo, consulente per Assoprol Umbria, capo panel, ha iniziato lavorando in un vivaio dedicato alla produzione di olivi: “Ho prodotto e venduto piante di olivo per 23 anni. Quando il resto del mondo comprava piante per fare nuovi impianti, l’Italia le comprava per fare rinfittimenti o per l’oliveto di famiglia. Da almeno vent’anni la Spagna e altri Paesi del Mediterraneo hanno riammodernato e costituito una nuova olivicoltura, invece l’Italia ha iniziato la fase di abbandono di molti oliveti non più gestibili e marginali. Questo fa già capire in quale situazione versa la nostra olivicoltura”.

I forti abbassamenti di temperatura registrati alla fine di febbraio 2018 hanno provocato danni anche alle piante. “Sicuramente la prima ragione per cui lo scorso anno abbiamo avuto una drastica diminuzione di prodotto”, spiega Angela.

Eppure la produzione di olio di oliva in Europa aumenta, ma solo grazie all’importante contributo della Spagna. La Commissione Europea stima una produzione complessiva di 2.267.100 tonnellate, pari al 3,7% in più rispetto alla stagione precedente. La parte del leone spetta alla Spagna con 1.790.000 t (+42%), segue la Grecia con 185.000 t (-46,5%), l’Italia con 175.000 t (-59,1%) e il Portogallo con 110.000 t (-25%).

Il risultato dell’Italia è il frutto di più fattori. “Quando si parla di produzione italiana di olio, spesso si confonde l’olio prodotto da olive italiane con quello che viene confezionato in Italia dai grandi marchi”.

I primi gestiscono oliveti, di proprietà o in affitto, seguendo la coltivazione tutto l’anno, dalla potatura alla raccolta e sempre più frequentemente molendo le olive in frantoi aziendali. Controllando l’intera filiera si ottengono extravergini a marchio aziendale, muniti di diverse certificazioni che garantiscono sistema di coltivazione, qualità, tipicità e provenienza. “Non riescono però a controllare situazioni climatiche avverse che sempre più frequentemente interagiscono negativamente con la pianta dell’olivo come forti freddi invernali, scarse allegagioni, siccità estive, incontrollabili attacchi parassitari. Tutti questi fenomeni portano ad abbassamenti annuali di produzione, che si accentuano dove l’olivicoltura viene gestita soltanto durante il periodo di raccolta. Quando l’azienda non è principalmente ad indirizzo olivicolo, quando l’olivicoltura rappresenta un reddito secondario, grazie alla capacità di sopravvivenza della pianta, ‘l’imprenditore’ tralascia le fasi colturali che rappresentano un costo non giustificato dagli scarsi ricavi”. Solo in pochi casi l’olivicoltura rappresenta la coltura principale per aziende specializzate, che oggi stanno affrontando la produzione con serietà e professionalità, mai appoggiati da piani olivicoli strategici nazionali.

I secondi, ossia i grandi marchi, rappresentano il vero fatturato dell’olio esportato dall’Italia: “tuttavia, nelle bottiglie che esportano, l’olio italiano è poco protagonista, in confronto a quello che invece viene importato, selezionato e blendato, per poi ripartire nuovamente dall’Italia, e una parte venduto anche nella nostra nazione”. Ma per quale motivo si importa? “La prima ragione per cui si importa è che costa molto, molto, molto meno dell’italiano, in alcuni casi nemmeno gravato di dazi. La seconda è perché in Italia si produce molto, molto, molto meno di quanto sia l’autoconsumo. Tuttavia il prezzo basso non è soltanto dovuto a bassi costi di produzione, alta meccanizzazione dei processi produttivi o basso costo di manodopera. Più spesso è dovuto a una bassissima qualità dell’olio, dalle dubbie extraqualità”.

Sotto il cappello extravergine c’è un po’ tutto, nonostante tutto sia stato normato e “controllato”. Ma qual è il punto? Come si è arrivati a questa situazione?

“In Italia ci sono troppi oliveti vecchi e non più remunerativi, che però si trovano in aree marginali o d’importanza paesaggistica. Alberi dai tronchi cariati, alti e voluminosi rendono ogni operazione di campo oltre che insostenibile economicamente, a volte impossibili da praticare, soprattutto dove scarseggia manodopera. Le proprietà sono piccole e frammentate, a volte ricevute in eredità, non organizzate alla conduzione agronomica e alla commercializzazione. Ragione per cui molti produttori hanno abbandonato l’olivicoltura e altri lo faranno. Per come vanno le cose, rimarrà solo chi produce qualità in modo professionale, oppure chi, seppur piccolo, ha saputo organizzarsi in cooperative, dove conferire olive per affrontare i mercati insieme ad altri olivicoltori. Sicuramente c’è spazio per altri che vorranno entrare in questo settore pensando ad una nuova olivicoltura, fatta di meccanizzazione, di precisione, di scelte varietali, di tecnologia di estrazione. Un’olivicoltura capace di stare al passo con i tempi, sia che si tratti di sistemi di coltivazione tradizionali che ultramoderni, dove l’obiettivo qualità chimica e organolettica siano in grado di rappresentare la più alta espressione che solo l’olio da olive può dare”.

Se in passato sono stati gli industriali a portare il nome dell’Italia nel mondo, oggi sono i grandi olivicoltori italiani a farlo. “Voglio ricordare alcuni nomi come Viola per l’Umbria, Franci per la Toscana, Conserva per la Puglia, Cutrera per la Sicilia, Quattrociocchi per il Lazio, Masciantonio per l’Abruzzo, Colonna per il Molise e così molti altri per le restanti regioni. Oggi l’olio Italiano è apprezzato nel mondo come espressione di questa qualità, dove anche il prezzo esprime qualità. Per ridare slancio e protagonismo all’olivicoltura italiana, nuove aziende dovrebbero scendere in campo e investire in una nuova olivicoltura sostenile e produttiva. Il paesaggio agricolo non va solo mantenuto, ma può anche essere creato in quei terreni attualmente incolti e che stanno perdendo valore fondiario e sociale”.

Per fare questo non ci vogliono esclusivamente capitali e imprenditori, occorrono anche figure professionali, capaci di guidare e sostenere il settore con capacità tecniche. Oggi per gestire un oliveto e produrre olio ci avvaliamo di ricordi tramandati dal nonno o di pseudo esperti appena sfornati da un corso di assaggio, pensionati o in cerca di primo lavoro, che offrono consigli quasi a buon prezzo.

“I cambiamenti climatici forse sono il minore dei mali, forse anche in passato si erano verificati periodicamente. Erano sicuramente altri tempi dove la rassegnazione a mancati raccolti era normale. Oggi rincorriamo mercati, qualità, costi e redditività. Quindi dobbiamo accettare di gestire le colture introducendo meccanizzazione, irrigazione e capacità di controllo di parassiti attraverso il monitoraggio per intervenire al momento giusto con prodotti adeguati sotto la guida di esperti fitopatologi”.

Da un po’ di anni abbiamo avuto non solo qualche danno da freddo, ma anche attacchi incontrollati di mosca delle olive e abbiamo importato, per mancanza di controlli, il batterio della Xylella che sta flagellando il sud della Puglia.

C’è chi invece, temendo fortemente il nuovo, attribuisce colpe all’olivicoltura superintensiva, che pur nascendo in Italia, non ha mai visto la luce nel nostro Paese se non in pochi casi isolati. Altri invece la ritengono generosamente l’unica possibilità di coltivare l’olivo con un minimo di impegno e un massimo di resa.

“Mi sento di dire che come per altri settori, anche in questo regna uno stato di confusione che dovrebbe indurci a nuove e coraggiose riflessioni, per dare un moderno giusto ruolo all’olivicoltura e agli operatori del settore”.