Infuria la battaglia dei prezzi

Di   7 Maggio 2019

Perché la perdono sempre i produttori. Articolo di Lorenzo Frassoldati, direttore del “Corriere Ortofrutticolo”

Fragole italiane, la Spagna ha rovinato (o sta rovinando) tutto, anche sul fronte export. Kiwi italiano (Hayward), la Grecia sta rovinando tutto. Clementine italiane, la Spagna ha già rovinato tutto. Le pere italiane, chi le ha rovinate?   Mah … i prezzi comunque non sono remunerativi. E altre campane a morto suonano dalla Puglia per l’uva da tavola e le verdure invernali. In questi giorni si susseguono impietosi bollettini di crisi che segnalano l’annata “no” per prodotti che sono il vanto della nostra produzione, cavalli di battaglia anche per il nostro export. 

Mi si consenta una digressione personale. Ieri sono andato a fare un po’ di spesa al mio mercatino rionale a Bologna, nulla di lussuoso, nessuna boutique dell’ortofrutta, solo tanti banchi (senza celle frigo) gestiti a livello familiare che propongono qualità discreta, medio-buona, (nessun pachistano per intenderci con i cartellini a 0,99 al chilo). Ebbene ho comprato 2 kg di Tarocco (calibro piccolo), un mazzo di asparagi, un po’ di insalata, 3 cipollotti Tropea, 1 mazzetto di ravanelli, ho speso quasi 18 euro. Voglio dire: l’ortofrutta al dettaglio costa, gli stessi prezzi del mio mercatino li si può trovare sui banchi di qualche store di medie dimensioni (Coop, Eurospar, Conad) nelle vicinanze.

I tempi dei cartellini sotto i due euro sono lontani, ormai sono stabilmente tra i 2-2,5 e i 3 euro/kg. Se poi andiamo su prodotti particolari (kiwi giallo, esotico, biologico, primizie di stagione) o su IV e V gamma i prezzi salgono ancora. I consumatori, che generalmente guardano poco ai prezzi, spendono meno perché hanno meno soldi e si accorgono che lo scontrino alla fine è sempre più alto. Così i consumi calano o sono stagnanti e alla GDO manca fatturato, tranne che per le catene dei discount (dove i prezzi sono nettamente più bassi).

Sintesi: il prodotto di qualità medio-buona non viene svenduto dagli intermediari (catene, dettaglianti, mercati rionali), viene solamente pagato poco ai produttori. Di qui le lamentele del mondo produttivo, un coro funebre che si ripete più o meno uguale da un anno all’altro, aggravato da tre circostanze: l’aumento della concorrenza internazionale; la domanda che si rarefà con l’aumento dei prezzi; la destagionalizzazione dei consumi e dei prodotti.

C’è frutta e verdura di tutti i tipi quasi 12 mesi all’anno, con i relativi prezzi che variano in base alla provenienza e alla stagionalità. E con un elemento che confonde: i prezzi variano dal Nord al Sud in maniera importante. Quando vado in Puglia o Sicilia mi accorgo che, soprattutto al dettaglio, i cartellini (quando ci sono) indicano valori del 30/40 % in meno rispetto al Nord.

Cosa voglio dire? Che se per il consumatore la battaglia dei prezzi è un porto delle nebbie, dove è quali impossibile orientarsi, per i produttori la battaglia dei prezzi è quasi impossibile, forse perduta in partenza. E infatti qual è la ricetta dei produttori davanti alla domanda: che fare? Come risollevare il valore dei prodotti? La risposta è più o meno sempre la stessa: più aggregazione, più ricerca, nuove varietà, più servizio, più valorizzazione, più promozione, più marketing.

Quasi sempre però questi sono costi in più per le imprese (si pensi alle certificazioni), che non vengono ripagati dal prezzo finale. E anche l’aggregazione, quando funziona, non sempre è risolutiva: vedi il caso di Opera per le pere, una grande aggregazione ma i prezzi all’origine restano insoddisfacenti. E poi spesso ci si aggrega tra concorrenti, e va bene, ma senza un ufficio commerciale unico ognuno poi va per la sua strada e prevalgono gelosie e lotte intestine.   Forse le uniche aggregazioni che hanno funzionato davvero sono quelle (di lunga data) delle mele in Trentino Alto Adige, ma anche qui i tempi d’oro sono finiti e la concorrenza polacca si fa sentire.

Le catene dal canto loro chiedono più qualità e più programmazione: richieste sacrosante, per carità, perché loro rispondono al consumatore che chiede qualità e “prezzi bassi e fissi”. Però spesso (quasi sempre, secondo molti) la richiesta del prezzo più basso prevale su tutto. 

Concludendo: la volatilità dei mercati è ormai un fatto strutturale, i concorrenti sono ovunque in Europa e fuori, i prodotti entrano da ogni parte, tutto l’anno, e hai voglia a chiedere più controlli … Chiedere dazi è esercizio inutile, finché siamo in Europa, in ‘questa’ Europa. Parlare di vendita diretta può andare bene per nicchie di mercato. Parlare di ritorno all’orto dietro casa o in terrazza è puro folclore. Insomma, il valore delle produzioni dipende da una serie di fattori che sono in larga parte imprevedibili, variabili fuori dal nostro controllo.

Per affrontare questa volatilità di prezzi, per fare ricerca e innovazione, per affrontare nuovi mercati servono spalle robuste, aziende strutturate; serve una rappresentanza che faccia lobby, serve una politica che aiuti davvero le imprese, che le ‘costringa’ a fare sistema, a lavorare davvero assieme. Spingere sull’aggregazione va bene, benissimo, ma da sola non basta. Aggregarsi per fare cosa? Per ridurre i costi … e poi?

Il caso dellaIV gamma: attenti alla Spagna, investe in prodotti ‘prerogativa’ delle serre italiane

Clima impazzito e atomizzazione produttiva sono i principali ostacoli allo sviluppo della IV Gamma italiana, ostacoli che stanno spostando il baricentro produttivo verso Paesi con maggiore organizzazione e aggregazione, a partire dalla Spagna.

Il gap tra Italia e Spagna nell’innovazione si sta riducendo e le grandi organizzazioni produttive iberiche stanno iniziando a produrre le varietà che soltanto fino a ieri erano prerogativa unica delle serre italiane: baby-leaf, micro-green e ogni genere di ortaggio a foglia richiesto dalla IV Gamma.

Si parlava di danni climatici e di eccessiva frammentazione del tessuto produttivo. Il lavoro dei grossisti del settore IV Gamma è sempre più difficile. Manca prodotto. Si fa fatica a trovare radicchio tondo e cicoria pan di zucchero che registra un calo di volumi fino al 50%. Questo li spinge a cercare fornitori all’estero, come in Spagna, dove per riempire un bilico o container basta una o due telefonate al massimo. Mentre in Italia non ne bastano cinque.

Eì la cpseguenza della frammentazione italiana dei produttori di IV Gamma. Nel senso che, tolta quella decina di aziende grandi e medie (sostanzialmente tutte riunite intorno al tavolo dell’ex AIIPA IV Gamma, oggi Unione Italiana Food) la restante parte, circa 200 aziende agricole, operano in ordine sparso vendendo il prodotto al migliore offerente, spesso tra i grossisti del settore. Si parla comunque di piccole realtà che possono offrire quantitativi limitati sicché il grossista è costretto a fare innumerevoli telefonate per riempiere un carico con il rischio, in una stagione climatica avversa come questa, di non riuscire a soddisfare la richiesta del cliente, che è poi rappresentato dalle catene della GDO italiana e internazionale, con le loro rigide esigenze.

Se la GDO si abitua al prodotto che arriva dall’estero, affermano i grossisti, poi continua a richiedere quello. Ci sono casi di distributori di IV Gamma che piuttosto che continuare a rifornirsi in Italia con tutte le incognite del caso, dal clima all’incertezza dei volumi, hanno preferito investire nella realizzazione di propri impianti produttivi in zone vocate della Spagna e del Portogallo.