Per un’innovazione biotecnologica e diffusa

Di   28 Aprile 2022

Una sintesi dell’Agrifood Tech 5.0 Summit organizzato da The Innovation Group giovedì 28 aprile

La drammatica accelerazione della situazione geopolitica internazionale, così come la pandemia e la crisi energetica non è un invito ma un imperativo ad abbandonare l’agricoltura bucolica dell’800 che ha imperversato per tutto il 1900 e per i primi venti anni del nuovo millennio. Con queste parole del presidente di The Innovation Group Roberto Masiero si è aperto L’Agrifood Tech 5.0 Summit.
Sono intervenuti il ministro Stefano Patuanelli, l’ex ministro e attuale vice direttore generale della fao Maurizio Martina, il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti quello di Coldiretti Ettore Prandini, la presidente del Cnr Maria Chiara Carrozza, il presidente di Alleanza Cooperative Agroalimentari Giorgio Mercuri, il direttore generale del Crea Stefano Vaccari e il presidente di Federalimentare Ivano Vacondio. Ha coordinato il tavolo Elio Cosimo Catania, tra i massimi innovatori che l’Italia abbia mai avuto.

Se domani Putin ci blocca il gas? Cosa facciamo?

Siamo di fronte a una drammatica accelerazione tecnologica del settore primario. Passa da mani sia pubbliche sia private. La variabile tempo è determinante, occorre essere veloci, superare il ritardo (di cui siamo drammaticamente colpevoli) dell’industria Internet of Thing italiana e abbracciare l’innovazione digitale, come strumento per la sostenibilità e la sicurezza alimentare ed energetica.

C’è un deficit di investimenti in tecnologie e innovazione

“L’Italia è sotto del 65% rispetto alla media europea per invetimenti in innovazione”, ha detto Elio Catania. “La sola policy è stata industria 4.0. Per esperienza posso dire che gli incentivi sono importanti, ma non bastano, serve leadership, l’esempio di chi sta al vertice di ruoli politici e associativi. Il Pnrr è una grande occasione. Ma come facciamo a chiudere il gap tra ricerca, soluzioni tecnologiche e imprese piccole, medie o grandi? In Italia non siamo mai stati in grado di creare un link tra ricerca e applicazione“.

Il piano di digitalizzazione deve coinvolgere tutti i soggetti su più fronti, dalla formazione, a nuovi modelli organizzativi del settore che dovrebbero consentire a realtà piccole e medie di unire le forze. Una parola chiave dei diversi interventi è stata, infatti,  “piattaforma quale dorsale strategica per la miriade di esperienze aziendali piccole e medie che da sole fanno fatica ad arrivare alla svolta digitale. Occorre quindi un piano infrastrutturale per cablare le aree rurali e un piano educativo.

Di particolare rilievo gli interventi di Maria Chiara Carrozza del Cnr e Stefano Vaccari del Crea. La presidente del Cnr ha insistito sulla necessità delle nuove tecniche genetiche, per uno sviluppo sostenibile e per produrre cibo per tutti in modo compatibile con la sopravvivenza del pianeta. La visione deve essere biocompatibile, non iperspecialistica. “E lo dico da esperta di robotica”. Il direttore generale del Crea ha invece sottolineato come l’agricoltura sia uno dei settori più competitivi del paese. “Dieci anni fa importavamo 10 mld di euro di agroalimentare, oggi siamo in surplus. Importiamo cereali, animali vivi e caffè, ma esportiamo vino, pasta, carne, dolci. Il modello di autoapprovvigionamento è un concetto sbagliato, superato, l’Italia agricola ha bisogno di una politica di approvvigionamento in sicurezza di ciò che le serve per produrre“. Questo perché siamo un paese che produce valore, non cibo qualsiasi, non commodities.

“La questione non è produrre banalmente più grano o girasole. Per i produttori italiani è fondamentale mettere in sicurezza le filiere”. In inglse si dice economic self security: “Per farlo occorre produrre di più con meno mezzi tecnici e diventare così meno dipendenti dal mercato e dalle materie prime energetiche come concimi e antiparassitari. Usarne meno significa essere più autosufficienti”.

Per Carrzza e Vaccari il ruolo chiave è nelle mani della ricerca scientifica e, in particolare, nella genomica: “Perché l’Italia non può fare ricerca, ma altri paesi possono? Fateci fare la ricerca in campo”, l’appello di Vaccari. E poi c’è la formazione “Il capitale umano fa la differenza in azienda più dei sensori“.

Il modello organizzativo che ne esce è un modello collettivo, di innovazione diffusa. “La scala diffusa è l’elemento di successo dell’agricoltura italiana. La prima in Europa in termini di valore aggiunto. Usiamo il terreno e le risorse come nessuno in Europa”.

Il presidente di Federalimentare Ivano Vacondio ha sposato in toto l’intervento di Vaccari, aggiungendo l’importanza strategica delle filiere corte. Questo il suo ragionamento: “Abbiamo bisogno di un’agricoltura forte, competitiva che faccia qualità e regga il mercato. Dobbiamo tornare con forza al concetto di filiera, e le filiere sono forti se sono corte, sia per un rapporto diretto con i produttori sia perché la redditività è ridotta” e conviene distribuirla su una fiiera con pochi attori. La svolta tecnologica diventa importante per favorire una riduzione dei costi, un lavoro più razionale con meno sementi, concimi, acqua…

“Abbiamo bisogno di produrre valore, i  mercati esteri ci premiano perché portiamo un’idea di eccellenza. I nostri prodotti non servono a sfamare le persone ma a fare status. Lo vediamo con il turismo enogastronomico“.
Il punto è che il valore non si crea con i consumi interni che calano dell’1% all’anno: “L’unico modo per creare valore è aggredire i mercati esteri, e serve competitività e un sistema manifatturiero forte che investa in innovazione prima di tutto con capitale proprio, generato portando valore aggiunto sul mercato”. Specialities, non commodities, con la frammentazione del sistema che può diventare una forza facendo leva su biodiversità e differenza.