TEA IN VITICOLTURA

Di   20 Gennaio 2022

Tra nuovi vitigni e varietà “tradizionali” resistenti, è sempre più avanzata la genetica nel vino. Ma serve un nuovo quadro normativo, e la sperimentazione in campo. Le riflessioni di genetisti e istituzioni radunati dall’Alleanza delle Cooperative

Il dibattito sull’avanzata delle genetica nel settore del vino, appoggiata da alcuni e vista come carta vincente nella lotta alle malattie e al cambiamento climatico, e avversata e vista come un rischio da altri, ma tema sempre più sotto i riflettori in questi ultimi mesi, è sempre più un dibattito anche sul futuro del vino italiano e sulla sua competitività. Tra visioni, tecniche genetiche e normative diverse, si colloca con una visione “pro genetica” il dibattito sui “nuovi modelli di viticoltura alla luce delle moderne tecnologie genetiche e delle politiche europee”, proposso, mercoledì 19 gennaio, in forma di webinar, dall’Alleanza delle Cooperative, con autorità in materia di ricerca genetica applicata alla vitivinicoltura come i professori Attilio Scienza dell’Università di Milano, Michele Morgante dell’Università di Udine e Mario Pezzotti della Fondazione Edmund Mach di San Michele Adige, oltra a Paolo De Castro, eurodeputato e membro della Commissione per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo, e Stefano Vaccari, direttore Crea.

“La cooperazione vitivinicola è convinta che la strada del futuro sia quella della sostenibilità, del rispetto dell’ambiente e della salubrità dei prodotti: servono tuttavia soluzioni che possano rafforzare questo approccio, anche per meglio aderire al nuovo quadro politico definito dalla Pac post-2023 e dalla strategia farm to fork: in questo contesto, le varietà resistenti o tolleranti, e in futuro le moderne tecnologie, potranno potenzialmente contribuire a mantenere e migliorare i livelli di competitività e di produttività, nonché a raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati al 2030. Occorre quindi un approccio nuovo che dovrà passare, nel più breve tempo possibile, dall’adeguamento del sistema normativo, dalla ricerca e dalla sperimentazione di campo”. Con queste parole ha aperto il webinar il coordinatore del settore vino di Alleanza Cooperative Agroalimentari Luca Rigotti.

Il parlamentare europeo Paolo De Castro (s&d) ha ricordato come “siamo tutti d’accordo sull’obiettivo di ridurre la chimica, ma dobbiamo al contempo fornire agli agricoltori strumenti concreti per combatterli. Uno straordinario supporto può venire proprio dalla nuova regolamentazione comunitaria sulle tecnologie di miglioramento genetico, che si limitano ad accelerare ciò che in natura può avvenire senza l’intervento dell’uomo”. De Castro ha quindi ribadito “la netta e totale differenza con gli ogm, che sono invece attualmente vietati da 17 Stati membri. Va sgombrato il campo da ogni ambiguità: anche un recente studio della Commissione ha precisato la differenza tra vecchi ogm e le tea, le nuove tecnologie di miglioramento genetico, non ci resta che auspicare che la Commissione chiarisca definitivamente sul piano giuridico i percorsi autorizzativi delle nuove varietà. La tempistica è in mano alla Commissione, ma il Parlamento farà in modo di accelerare, speriamo entro l’anno”.

Il “Green Deal” Europeo ci dice che da qui al 2050 in agricoltura va ridotto del -50% l’utilizzo di pesticidi chimici e di antibiotici, del -20% quello dei fertilizzati, che il 25% della superficie dovrà essere a biologico. E allora la domanda è: andiamo avanti con la chimica o con il miglioramento genetico?

Il Professore dell’Università di Milano e presidente del Comitato vini dop e igp Attilio Scienza ha spiegato come storicamente i viticoltori italiani ed europei abbiano poca propensione all’innovazione genetica: “Varietà che derivano da incroci come Muller Thurgau, Manzoni Bianco, Albarossa, Merlese, Rebo e così via non arrivano a 2000 ettari sui 660.000 del vigneto italiano. Eppure, ci sono stati grandi progressi, e in Italia, per esempio, nel 2020 sono state registrare 20 varietà dei cosiddetti vitigni Piwi. E le ricerche di Università come quella di Udine o quella tedesca di Geisenheim, hanno mostrato che i vini da vitigni restistenti, così come quelli da varietà tradizionali da vitis vinifera, sono fortemente influenzati dall’annata, hanno una buona stabilità metabolica e così via. Oggi in Italia tante regioni nel Nord Italia sperimentano, ma ci saranno si e no 1.050 ettari, di cui 700 curati dall’Università di Udine con vitigni resistenti. Questo anche per il quadro normativo. Perchè anche se l’Unione Europea ha dato il via libera per il loro utilizzo nei vini Dop e Igp, in Italia molti vitigni ottenuti da incroci, soprattutto se si tratta di ibridi interspecifici tra vitis vinifera e specie americane o asiatiche, sono registrati con limitazioni a margine, e quindi non utilizzabili per i vini a denominazione. In Francia, per esempio, alcune varietà resistenti come Artaba, Vidoc, Floreal e Voltis, sono già utilizzabili per produrre Champagne e Bordeaux. La ricerca francese sta spingendo molto, è una priorità per la filiera, l’obiettivo è fare della Francia il punto di riferimento per la produzione di vino a basso impatto ambientale. I francesi hanno un progetto nazionale per valorizzare le loro varietà autoctone con i vitigni resistenti, noi no, se non apriamo una ricerca diffusa, anche se si sta facendo molto”.

Occorre quindi “una cultura dei resistenti: il lavoro della ricerca è importante, ma lo è anche quello della comunicazione, perchè va conquistato il consumatore“. E qui – spiega Scienza – bisogna continuare a parlare di terroir, di vitigni autoctoni ma in termini moderni, svecchiando il concetto di autoctono, e considerando tale un vitigno che in un determinato luogo esprime in un luogo il meglio delle sue potenzialità genetiche: pensiamo al Sangiovese che è nato al Sud ma il meglio lo sviluppa in Toscana. E va spiegato bene ai consumatori il ruolo della genetica per la sostenibilità, e anche nei confronti de cambiamento climatico. Ancora, guardando ai nuovi vitigni resistenti, serve una nuova enologia varietale. E poi andrebbe sviluppato anche un approfondimento sulla nutraceutica, ovvero su quello che possono portare all’alimentazione le nuove varietà resistenti”

L’obiettivo fondamentale è, quindi, fare vini di assoluta qualità, coniugare tradizione e innovazioni, permettere una riduzione tangibile dei trattamenti (e dei costi) e consentire la realizzazione di vigneti ad alta sostenibilità ambientale. Ma in Italia, come sempre, abbiamo una lentezza burocratica che ci penalizza. E alcune cose si potrebbero fare rapidamente, come aprire all’utilizzo dei vitigni resistenti per i vini Igt, con la possibilità di rivendicare il vitigno in etichetta. Così come introdurre la mutualità di autorizzazione alla coltivazione tra Regioni confinanti. E poi c’è tutto i tema della comunicazione, perchè va conquistato il consumatore.

Ma, se da un lato, la creazione di nuove varietà di uva da vino è una strada per il futuro, un’altra via, non in opposizione, ma parallela, è quella del miglioramento delle varietà resistenti, tanto più importante quando si parla di vitigni storici che sono alla base stessa di denominazioni importanti come lo è il Nebbiolo per il Barolo o il Sangiovese per il Brunello di Montalcino, ha spiegato il professor Michele Morgante direttore dell’Istituto di genomica applicata dell’Università di Udine, che ha anche evidenziato il problema normativo che al momento equipara ancora le nuove tecniche ai vecchi ogm, “pur essendo dal punto di vista dei rischi per l’ambiente e per l’uomo estremamente diverse e molto più simili a quelle del miglioramento tradizionale. Il percorso che dovrebbe portare alla revisione dell’attuale normativa si spera possa andare nella direzione di utilizzare la logica e non l’ideologia, per consentirci di poter avere un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente e più sostenibile, anche economicamente. E’ importante riuscire a convincere i consumatori, raccontando le cose in maniera diversa e spiegando che siamo all’inizio di una rivoluzione in agricoltura, che ci renderà possibile combinare produttività e sostenibilità, abbracciando le innovazioni“.

Il direttore del Centro ricerca innovazione della Fondazione E. Mach Mario Pezzotti ha illustrato il lavoro che la Fondazione sta portando avanti in tema di miglioramento genetico e ha evidenziato come “i processi di miglioramento genetico necessitino di tempi tecnici, dai primi incroci fino alle successive selezioni, che possono arrivare fino a 10-15 anni e che vanno poi accompagnati da una forte mole di investimenti di risorse umane, nonché dei campi e delle serre sperimentali necessarie ad ospitare i programmi di selezione”.

“La ricerca è in grado di utilizzare il genoma editing, ma ad oggi la legislazione, che è la stessa degli ogm, rende impossibile fare ricerca in campo, dal momento che ci vogliono due anni di burocrazia per gli adempimenti. L’Italia non deve aspettare l’Europa, possiamo e dobbiamo muoverci subito come Paese, cercando di dare ridurre a massimo due mesi i tempi di autorizzazione per la sperimentazione. Crea ha sostenuto la proposta di legge presentata lo scorso dicembre insieme al presidente della Commissione agricoltura della Camera dei deputati Filippo Gallinella di modifica al decreto legislativo 8 luglio 2003, n. 224 che, se approvato, ci consentirà di guadagnare almeno tre anni di tempo, con indubbi riflessi in termini di competitività, in attesa che l’Ue provveda poi a legiferare sull’immissione in commercio dei tea”, ha detto nel suo intervento il direttore di Crea Stefano Vaccari.